Adolescenti. La SOFFERENZA

Sto male (e non te lo dico neanche)

La sofferenza dei giovani è un tema delicatissimo. Ci muove, ci preoccupa più del dovuto, inevitabilmente.

Se poi sono nostri allievi, atleti, figli, ancora di più. Non c’è niente di peggio che veder soffrire un figlio. Ecco allora qualche considerazione nella speranza che sia utile punto di partenza per gestirla; per allenare la forza di chi sta vivendo quella sofferenza che, in gran parte dei casi, è naturale. Sì naturale, lo sappiamo tutti. Gli adolescenti soffrono perché stanno ri-nascendo: è l’adulto che deve venire alla luce, e impega oltre un decennio della sua esistenza per riuscire a farlo.

 

1. Chi soffre non è malato

Dirsi questa cosa qui, che il fatto che soffrano non vuol dire che sono malati, apparentemente è inutile ad alleviare dispiacere e apprensione. È importante però riconoscerlo perché cambia ciò che scegliamo di fare di quella sofferenza e di fronte ad essa. La malattia si cura, la sofferenza no. Il ragazzo o la ragazza deve sentire di non essere malat0/a e imparare a vivere la crescita che, come qualunque cambiamento, prevede che si soffra un po’. Quella sofferenza può essere più lieve se l’adolescente è circondato da chi lo fa sentire sostenuto in questo passaggio che, non dimentichiamolo, porta anche scoperte meravigliose.

 

2. Soffrire non è sbagliato

La sofferenza può essere più lieve e trasformativa se l’adolescente non ci si sente sbagliato. Lo sai vero che questo è un problema che riguarda anche molti adulti? Viviamo nella società della perfezione e del successo.

Un adolescente che si sente sbagliato quando soffre, che sente che la sua sofferenza è insostenibile per chi gli sta intorno, anziché chiedersi cosa ho di buono? (che è il suo obiettivo principale) , si chiederà: cosa c’è in me che non va? E poi: come posso alleviare questo disagio in chi mi sta intorno? Smette anche di dirtelo, che sta male.

Un conto è la riservatezza, imparare a proteggere quell’area di sé che si vuole tenere intima, propria, per sé; un conto è nascondere la sofferenza.

 

3. Perché si soffre da giovani?

Da giovani si soffre il non sapere chi si è, cosa si vuole. Si soffre da adulti spesso per la stessa cosa. Ma da giovani si hanno meno strumenti, non solo culturali ma anche biologici. La neocorteccia cerebrale, cioè quella parte del cervello che ci fa umani, comincia a formarsi nel passaggio dall’età infantile a quella adolescenziale e il suo compimento si ha attorno ai 24 anni. Ecco l’età in cui l’adolescenza è finita!

Da giovani si soffre perché ci si sta cercando senza la garanzia che ci si troverà. Si è disorientati. Il giovane cerca di capire chi è, cosa ha di buono e forte.

Si abbandona la fase evolutiva in cui si ha bisogno di appartenere e si entra in quella in cui si ha bisogno di essere riconosciuti.  Per l’adulto della nostra cultura è più semplice far sentire l’appartenenza che riconoscere. Non glielo hanno insegnato. Infatti spesso neanche l’adulto sa di sé. Ha imparato di sé molto bene cosa sa fare, ma difficilmente sa dire cosa è, che forza ha il suo carattere, cosa lo rende felice. Manca un alfabeto della forza e una abitudine alla forza e al bello.

I difetti? Per quelli siamo bravissimi!

Scoprire i propri punti di forza, per un adolescente, è difficile e al contempo fondativo della sua realizzazione, lavorativa e come essere umano.

 

4. Il falso mito dei vent’anni

Sfatiamo il mito dei vent’anni. Quella è un’età difficile.

Chi racconta che era tutto meraviglioso è spesso chi oggi non è realizzato e soffre. Non sto dicendo che i vent’anni non siano anni anche belli. Ma quelli sono innanzitutto anni difficili. E se non ce lo ricordiamo, rischiamo di fare lo stesso errore con i giovani che magari qualcuno ha fatto con noi: minimizzare la loro difficoltà, dirgli che quello è niente rispetto ai problemi dell’adulto, chiedergli ma cosa vuoi, ché hai tutto?

La spensieratezza dell’essere bambini, con l’adolescenza, cede il posto all’insofferenza, in un periodo lungo oltre un decennio, del chi sono e cosa voglio essere da grande.

 

5. Far leva sulla forza vuol dire innanzitutto conoscerla e riconoscerla

L’adulto in questo è fondamentale.

È una ricerca che prevede:

  • conoscenza di strumenti (i punti di forza),
  • metodo (per riconoscerli)
  • e allenamento (per facilitarne l’uso e il rafforzamento).

I punti di forza, le potenzialità più volte menzionate negli articoli di questo sito, sono aspetti del carattere specifici e scientificamente costruiti. Si va alla ricerca di ciò che un individuo è che possa facilitare la sua realizzazione. Ciò che è (punti di forza del carattere) insieme a ciò che gli interessa, che lo motiva, saranno le leve per la sua felicità. Il metodo è, per il Coaching Umanistico, quello della maieutica, che prevede al suo centro, un ascolto attivo e autentico e la capacità di dre restituzioni e fare domande che possano aprire a nuove consapevolezze.

Come tutte le ricerche, poi, occorre

  • un riferimento teorico.

Per affiancare un giovane nella sua ricerca occorre fare un primo importante passo: avere fiducia che anche il più ostile ribelle sofferente schivo giovanotto nasconde un potenziale di bellezza e forza. Chiunque. Una fiducia aprioristica essenziale per la riuscita di qualunque metodo e allenamento. Riuscire vuol dire innanzitutto apprendere, a prescindere dal risultato.

È ciò che consente a un coach umanista di essere efficace nella sua professione, quando affianca adolescenti, adulti, squadre di lavoro. La fiducia è quella convinzione che consentirà a chi gli/le sta di fronte di credere anch’egli che uno sviluppo è possibile e che può portare alla realizzazione del meglio di sé.

 

Leggi anche Adolescenti. Le FISSAZIONI.

2020-03-25T18:29:34+01:00