Padri e madri ai colloqui di selezione

Il valore di essere figlio

Non ho mai sentito nessuno che in un colloquio di selezione abbia avuto l’occasione di rispondere a un quesito del tipo: mi elenchi almeno tre cose, le più rilevanti, che ha imparato dell’essere figlio. Sono in molti invece a raccontare di aver dovuto rispondere alla domanda: Ha figli? Ha intenzione di avere figli? Domande di questo genere, se per alcuni risultano normali, lasciano sbalorditi altri.

Sull’equilibrio tra vita privata e vita lavorativa sono stati scritti tanti libri e, in alcuni casi, in quei contesti organizzati tra i più illuminati, ciò si è tradotto in politiche aziendali facilitanti: politiche sui congedi parentali, o per il supporto di genitori anziani in condizioni di necessità, e così via. Il punto che sollevo qui vuole andare a fondo nel domandarsi: qual è l’effettivo valore che attribuiamo alla nostra esperienza di figli? (E di genitori, qualora poi lo si diventasse?). L’accento è sulla cultura di fondo che ci muove.

 

Vita da artista, o vita da manager?

Maya Angelou1, tra le altre cose poetessa, attrice, regista, ballerina, raccontava in uno dei suoi speech: “quando cammino sul palco, quando sono in piedi a tradurre, quando vado a insegnare ai miei allievi, quando vado a dirigere un film, quello che faccio è portare con me tutti coloro che sono stati gentili con me, bianchi, neri, asiatici, latini, nativi americani, omosessuali, eterosessuali, tutti devono venire con me; sto salendo sul palco e dico: vieni con me, ho bisogno di te ora.”. La sua è stata una esistenza difficile – abbandonata da sua madre a tre anni, tanto per cominciare, la Angelou subiva uno strupro a sette anni, a seguito del quale non parlava per cinque anni – eppure non c’è volta in cui lei non parli dell’amore di sua madre, prima nella lista di tutte le persone gentili che porta con se. Per raccontare cose come quelle che racconta la Angelou, bisogna sentirne il valore, l’importanza: è una questione di gratitudine. È stato necessario che la Angelou imparasse, profondamente, l’amare quelle esperienze, compresa tutta la sua sofferenza. La sua opera e la donna che è diventata sono intrise del suo essere figlia, e madre, oltre che essere occasione di insegnamento per tutti. I maestri più illuminati delle pratiche meditative ci insegnano in ogni dove l’importanza di accogliere e integrare tutto, in ogni momento del nostro presente, ma perché una poetessa può farlo, e un impiegato no? Perché un regista può nutrirsi di tutto, e sembra che per un dirigente d’azienda questo non sia lecito?

 

Un primo paradosso, quando manca la consapevolezza

Bisogna fare attenzione perché si corre facilmente il rischio di cadere in un paradosso. Mentre conosciamo la fatica di trasformare in gratitudine anche ciò che è andato storto o ciò che di più naturale ciascuno di noi ha ricevuto  – essere figli – in alcuni casi (decidete voi se pochi, o tanti) c’è al contrario una facilità nell’esibire pubblicamente ed esasperare quella esperienza, di figli o di genitori. L’esibizionismo a cui assistiamo è solo apparentemente paradossale, perché figlio dello stesso problema culturale. Sembra che molti abbiano bisogno di urlare e mostrare cose al mondo, segno probabile del fatto che in quelle cose non ci credano veramente. Questa esperienza di vita – l’essere figli – fa fatica ad avere una dignità, che sia forte e umile insieme, come se mancasse una consapevolezza profonda del valore che ha: e allora da un lato ci si muove senza far leva su quel tesoro e dall’altro lo si spiattella ai quattro venti. Siamo tutti diversi e tutti proprio uguali: un elemento di complessità non immediato da cogliere nell’era del dualismo.

Torniamo di fronte al recruiter, o a un candidato: se non facciamo quello che racconta la Angelou, al di la di ciò che emerge esplicitamente nelle parole e nei comportamenti, la credibilità vacilla. Vacilla quella del candidato e anche quella dell’azienda, di cui il recruiter è in quel momento rappresentante. (Peccato credere ancora che il potere ce l’abbia solo chi seleziona.).

 

Il secondo paradosso dei contesti di lavoro

Quando sono seduto/a di fronte a un addetto alla selezione, io desidero che mi si scelga per tutto il mio valore (giusto?). Se a chi legge sembra scontato, guardiamolo bene un attimo. Le mie beghe familiari sono un peso, qualcosa di cui potrei perfino vergognarmi, qualcosa da nascondere (a se stessi)? Qui emerge un altro paradosso dei contesti di lavoro: quante aziende al loro interno sono sature di problemi personali dei collaboratori da cui non riescono a uscire? Alcune si trasformano in veri e propri luoghi di accoglienza di  quei problemi personali al punto da condizionare la collaborazione, la cooperazione e la sostenibilità – quindi la sopravvivenza dell’azienda, il che mette a rischio prima di tutto quei lavoratori in difficoltà. Talvolta non si investe con cura e cognizione nello sviluppo delle competenze umane necessarie, però si accoglie tutto e, proprio come tutti i casi in cui le cose difficili vengono gestite in modo approssimativo, crescono i conflitti, peggiora il clima e diminuisce la motivazione (a lavorare, a restare). Alcuni manager con cui mi sono trovata a lavorare si chiedevano infatti come fosse possibile sentirsi totalmente demotivati in quella stessa azienda che aveva sempre accolto tutti i loro problemi.

 

Il problema è amare davvero il proprio lavoro, la propria vita

Ma torniamo vicini al potenziale candidato; oppure pensiamo a quel lavoratore che torna da un congedo parentale e che ha trascorso i sei mesi precedenti a vedere una creatura stare al mondo per la prima volta: davvero mi volete dire che non vedete il potenziale educativo e di sviluppo delle abilità all’innovazione che questa esperienza può dare e portare in un contesto di lavoro? Non ci credo.

Il punto, semplice, è amare il proprio lavoro, e amare la propria vita; inoltre uscire da questa ulteriore dualità. Il conflitto tra vita personale e vita lavorativa nasce proprio quando le pensiamo e le sentiamo separate; altra cosa è creare uno spazio tra le cose, ma ciò è vero anche se voglio dormire e leggere un libro, se voglio correre e fotografare un tramonto, se voglio ascoltare la problematica del collega e rispondere al telefono a un cliente. Il fatto di inserire degli spazi non vuol dire che le cose siano separate, al contrario, così stanno meglio insieme e si nutrono reciprocamente.

Amare non vuol dire essere sempre felice, non avere difficoltà; non vuol dire neanche fare il lavoro dei sogni, che forse non esiste. Vuol dire trovare il modo di esprimere tutto il proprio potenziale umano attraverso competenze e capacità.  Se ci tengo a ciò che sono, se lo porto con me ovunque, ciò determina in maniera indiscutibile quello che faccio e come lo faccio. Questo ce l’abbiamo proprio chiaro tutti, anche se è qualcosa che facciamo ancora tanta fatica a misurare. Ma se me lo chiedono, lo so spiegare. Non c’è corso di formazione più sfidante e proficuo, il più costoso di tutti, dell’essere figli.

Se mia madre è assente, se mio padre è malato, se mio fratello è uno stronzo ché non capisce le mie esigenze, se mio figlio non ascolta e fa di testa sua, gestire queste situazioni e vederne il valore è insegnamento per tutte quelle qualità umane e competenze trasversali che oggi chiamiamo responsabilità, autonomia, gestione della competizione e leadership. Ne hai sentito parlare; e magari te ne sei accorto, ci hai pensato, ma poi hai scelto di tenere separate le due cose. Smetti.

Sono anche un coach, e in questo articolo distribuisco soluzioni? Niente affatto: voglio condividere con chi mi leggerà un approccio che io alleno quotidianamente. Qualcosa che sappiamo essere facile ma non semplice; soprattutto facile da fare, ma più facile da non fare (come direbbe Jim Rees).

 

Mi elenchi almeno tre cose, le più rilevanti, che ha imparato dell’essere figlio2

“La gestione dello stress, l’autorevolezza, l’importanza del dialogo

“Che i genitori fanno sempre quello che possono; che i genitori possono senz’altro affondarti ma chissà se possono salvarti; che il padre non è dio come lo si vede a 6 anni e non è il diavolo come lo si vede a 18. Il padre è un povero cristo come tutti e , se sei fortunato, quando ne avrai quaranta di anni te ne accorgerai; che due fratelli sono meglio di nessun fratello

“Il rispetto, l’affettività, la pazienza

“Qualcuno ha investito su di me non voglio deluderlo; che il mondo non può estinguersi quindi qualcuno deve rischiare; ho imparato che il messaggio ricevuto lo posso trasmettere, con tutti gli aggiustamenti del caso

“Il rispetto, l’amore, la generosità

“Ho imparato a essere solo, a stare zitto, a non piagere.

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1All’eta di sette anni e mezzo, Maja Angelou subisce uno stupro da parte di un uomo ben conosciuto in famiglia. Fu ricoverata in ospedale. L’uomo venne incarcerato e poi liberato, e quella stessa notte venne trovato morto. Seguendo la “logica di una bambina di sette anni e mezzo, credetti di essere stata la causa di quella morte per aver fatto il nome dell’uomo. Così, smisi di parlare per cinque lunghi anni.”. Come dal male può nascere il bene, racconta con le sue stesse parole: “in quei cinque anni ho letto ogni libro nella biblioteca della scuola per neri e ogni libro che ho potuto avere dalla biblioteca della scuola dei bianchi; ho imparato a memoria James Weldon Johson,  Paul Laurence Dunbar, Countee Cullen e Langston Hughes, ho imparato a memoria Shakespeare, tutte le opere, cinquanta sonetti, ho imparato a memoria Edgar Allan Poe, tutta la sua poesia senza averla mai sentita prima, ho imparato a memoria Longfellow, Guy De Maupassant, Balsa, Rudyard Kipling; […] quando ho deciso di parlare di nuovo avevo tanto da dire e tanti modi per dire quello che avevo da dire.”.

Charlie Rose, un noto giornalista televisivo americano, durante una intervista le dice:

CR – Everything you’ve done suggests this uncommon confidence in yourself and willingness to risk failure

MA – Maybe it’s more dangerous to risk success; a lot of people don’t really want success. […]. To succeed it means you’re in front of god and you have to either eat your words or stand by them.

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2Alcune risposte di candidati/e durante un colloquio.

 

2022-12-09T14:17:15+01:00