La dimensione individuale e quella collettiva di una CONVINZIONE

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La dimensione individuale e quella collettiva di una CONVINZIONE

 

La dimensione individuale di una convinzione individuale

Ciascuno di noi orienta le proprie scelte sulla base di ciò di cui è profondamente convinto. C’è un perché che ci muove, anche quando non ne siamo consapevoli, almeno finché non ci interroghiamo su di esso. Ma anche quando ci si chiede perché, non è detto che si impieghino criteri utili per adoperare una scelta.

Gregory Bateson, antropologo britannico, nella sua elaborazione dei livelli logici alla base dell’apprendimento/cambiamento, inserisce le convinzioni (le credenze e i valori) a un livello relativamente alto della scala di creazione del pensiero e del comportamento, ciò a dire che modificarle è estremamente difficile. Ma le nostre convinzioni determinano con relativa facilità le nostre abilità agìte, le nostre capacità, e i nostri comportamenti, fino a condizionare i contesti in cui ci muoviamo.

Facciamo un esempio. Non imparerò mai l’inglese: è una tipica convinzione limitante che può influenzare fortemente la possibilità di apprendere la nuova lingua; oppure, non capirò mai la matematica – se sei un genitore, è facile tu già l’abbia sentito dire e non abbia trovato via facile perché tuo figlio o tua figlia ne uscisse. Esistono anche convinzioni potenzianti: lo sanno molto bene gli sportivi[1].

Quando la convinzione è limitante, occorre scendere, nella scala dei livelli logici, e adoperare una vera e propria rivoluzione, laggiù, che possa facilitare il cambiamento della convinzione e l’innalzamento delle probabiltà di raggiungimento di un obiettivo.

Fin qui, tutto bene. È buona parte del lavoro che si fa in un percorso di Coaching.

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Facciamo ora un altro esempio. Mettiamo che la convinzione sia questa: fumare non fa male alla salute! Te lo dico io, mio nonno è vissuto oltre cent’anni e fumava. L’hai già sentito dire? Questa convinzione può essere “utile” a chi non vuole smettere di fumare – viva la libertà. Se questa convinzione appartiene a chi deve effettuare scelte per una collettività, le cose non vanno più tanto bene.

 

La dimensione collettiva di una “convinzione” collettiva

Nelle scelte che hanno una ricaduta sulla collettività – in una azienda, in una Scuola, per un Paese, etc. – il soggetto che sceglie deve basarsi su convinzioni che non siano individuali (come quelle degli esempi di cui sopra) né derivanti da una singola informazione; occorre che il soggetto responsabile della scelta si basi più possibile su “convinzioni”, se così vogliamo ancora chiamarle, o per meglio dire su evidenze emergenti da dati scientifici: l’elaborazione scientifica di osservazioni aggregate deve poter dare evidenza a una ipotesi e smentirne quindi altre. Personalmente, ho una passione per la qualità, ma ho una laurea in Scienze Statistiche e so bene quando serve quantità.

In estrema sintesi, occorre che le scelte si basino sui risultati di ricerche che siano scientifiche di qualità – sulla ricerca scientifica di qualità accennerò brevemente in coda a questo articolo.

 

La dimensione collettiva di una convinzione individuale

Nell’Era della post-verità, come è definito il mondo a partire dal 2016 nel dizionario Oxford (post-truth World), controllare i fatti diventa necessario più di quanto non lo fosse prima. Le nostre convinzioni diventano subito virali e possono condizionare decine, centinaia, milioni di persone. La responsabilità individuale della condivisione di informazioni ha assunto dimensioni preoccupati e incontrollate (si veda la ricerca sulla gestione e ove possibile il controllo delle fake news).

Ma anche controllare i fatti sembra ormai insufficiente. In un illuminante TED, l’economista Alex Edmans spiega bene perché: esiste un rischio di distorsione dei dati (Confirmation Bias) che può portare a delle convinzioni e delle scelte basate su singole storie (magari false) piuttosto che su evidenze scientifiche. Il Confirmation bias (distorsione da conferma) è un rischio a cui chiunque può essere soggetto: guai se la vittima è un decisore politico.

 

L’era del post-data

Edmans spiega il bias da conferma partendo da una considerazione di base: piuttosto che in un’era post-verità, dice, siamo nell’era del Post-data; preferiamo una storia a tonnellate di dati: l’essere umano è attratto dalle storie; ci affascinano e non potremmo vivere senza.

Una singola storia però può essere ingannevole e insensata se cerchiamo una verità, a meno che non sia sostenuta da un ampio numero di dati. Non solo: i dati, oltre a essere coerenti con l’ipotesi che vogliamo verificare, devono supportarla, ovvero darne evidenza. Detto nei termini della Scienza Statistica, i dati, coerenti con l’ipotesi, la sostengono e non sostengono l’ipotesi opposta. Succede spesso invece che ci si fermi alla coerenza e ci si dimentichi di verificare l’evidenza. La storia che Edmans racconta è utile allo scopo di far comprendere con sempicità un processo statistico tipico dell’inferenza bayesiana che può risultare complesso ai non addetti ai lavori.

 

L’inferenza bayesiana… casalinga

Hai mai sentito parlare di Belle Gibson? Belle è una giovane ragazza australiana, sana, sportiva, felice. A un certo punto della sua vita scopre di avere un tumore al cervello. Ha quattro mesi di vita; a nulla servono chemioterapie e radioterapie. Belle, ragazza da sempre vitale e combattiva, non si arrende: cambia stile di vita, includendo più esercizio fisico e meditazione; preferendo una dieta sana che comprenda frutta e verdura, rinunciando alla carne. Belle ce l’ha fatta. È guarita. La sua storia è diventata virale: milioni di persone l’hanno seguita condividendo i benefici della dieta e dell’esercizio fisico al posto della medicina tradizionale. La sua app Whole Pantry (la dispensa integrale) è stata scaricata duecentomila volte nel primo mese.

Ma la storia di Belle Gibson era una bugia. Come mai così tante persone ci hanno creduto?

Il confirmation bias è quel fenomeno per cui si accetta una storia senza criticarla, verificarla, perché conferma ciò che vogliamo sia vero; mentre accettiamo quella storia, rifiutiamo anche ogni altra storia che la contraddice, senza verificare. Se la dieta curasse il cancro, vedremmo tante storie come quella di Belle; ma anche se la dieta non curasse il cancro, noi vedremmo comunque tante storie come quella di Belle. Presa la storia di Belle come un fatto coerente con una ipotesi, crediamo che questa corrisponda a una evidenza incontrovertibile. Il vero problema della storia di Belle non è se sia vera. Anche fosse stata vera, il vero problema è che si tratta di una sola storia.

I dati sono solo una raccolta di fatti; le prove (evidenza) sono quei dati che sostengono una ipotesi e ne escludono altre. Il miglior modo per sostenere un’ipotesi – ciò che fa un ricercatore – è quello di provare a confutarla, di giocare all’avvocato del diavolo: ciò vuol dire andare alla ricerca di un’evidenza.

È questo un fenomeno che vediamo accadere in continuazione: nella politica, nel mondo del lavoro, nel contesto medico sanitario. Un caso che mi sta particolarmente a cuore è quello legato alla realizzazione di soggetti, squadre e organizzazioni nei contesti di lavoro e al legame che esiste con la motivazione, nei termini lungamente teorizzati e studiati da Edward L. Deci e Richard M. Ryan. L’antica convinzione che un aumento di salario determini un aumento della produttività e dell’efficacia lavorativa è stata lungamente provata come erronea (usare il bastone e la carota), quando applicata a mansioni lavorative che richiedono alto impegno mentale e creatività. Lo confermano decenni di studi e ricerche[2]. Eppure si continua ad agire come se funzionassero, sulla base di convinzioni limitanti e di mancata evidenza scientifica.

 

Come afferma ancora Edmans, nella diffusione delle informazioni si tende a dare risalto a ciò che fa notizia e cioè ai casi estremi, particolari, rari, piuttosto che a quelli ordinari che spesso sono i più. Non è solo un fatto di quantità: è un fatto di variabiltà e significatività – anche qui la Statistica gioca un ruolo fondamentale. Chi non ne comprende le leggi e confonde il piano individuale con quello collettivo, rischia di lasciarsi convincere da storie che non sono d’aiuto, che creano confusione e che, nella peggiore delle ipotesi, portano a scelte dannose per la collettività.

 

La responsabilità – la ricaduta collettiva di una convinzione individuale, e l’opportunità di evolvere comunque (nel bene)

Siamo circondati da verità che sembrano contraddirsi. Che fare? L’eccesso di informazioni rischia di radicalizzare alcune posizioni sopratutto laddove stare nel dubbio risulti faticoso: il bisogno di sicurezza è innato nell’essere umano e, maggiore è l’incertezza, maggiore è la difficoltà di avere una verità a cui aggrapparsi. Così può anche acuirsi la difficoltà a una apertura mentale: mi aggrappo a una verità perché sto più tranquillo. Mi ci aggrappo perché è vicina a una convinzione che ho già. Chiusura. Come biasimarci. Lo abbiamo fatto per migliaia di anni. Il problema sorge quando le scelte basate sulle proprie verità condizionano gli altri (le condivido sui social) o ancora peggio quando queste scelte diventano politiche. Ma questa è l’ennesima crisi che può farci migliorare, se non collettivamente, almeno personalmente. Come?

Ci vuole competenza. Chi maneggia certe informazioni, certi dati, certe evidenze, deve essere estremamente competente. Nell’era globale più che mai.

Cosa fare però se non si possiede la competenza specifica?  Non possiamo sapere e saper fare tutto. Un conto è nutrire quella visione di insieme e quella capacità di tenere le cose unite tra loro; un altro conto è essere competenti in un determinato ambito. Cosa fare allora, se non si è pratici di ricerca scientifica, o di astronomia, di fisica, di psicologia o medicina e si ha bisogno di evidenze? Se non si ha la competenza necessaria, la cosa più importante è rendersene conto. Poi, agire con responsabilità. 

Ci vuole impegno. Agire responsabilmente è il primo modo in cui ci si può impegnare. Controllare la veridicità di una storia, innanzitutto; essere consapevoli che, seppur vera, è una sola storia; comprendere se e come si può far riferimento a fonti autorevoli (se un esperto è un vero esperto; se la fonte delle informazioni è indipendente; se una pubblicazione scientifica è di qualità, etc.). In calce a questo articolo fornisco una mini guida utile a chi volesse approfondire e avere qualche strumento per orientarsi.

Se è troppo difficile, ci possiamo arrendere. Anche questa è responsabilità. Talvolta le cose sono più grandi di noi. Dopo essersi arresi, se ci si vuole rimettere in moto, una cosa utile da fare è quella di chiedersi perché. Dando un senso alla propria ricerca e al proprio agire si consolida la responsabilità e si evolve anche nelle situazioni più complesse.

Ci vuole competenza per alcuni, e responsabilità per tutti.

 

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Nota a margine.

L’importanza della Ricerca Scientifica

  1. La Ricerca Scientifica si basa su teorie – su una conoscenza – lungamente acquisita e non ancora smentita. In altri termini: la ricerca scientifica e le sue affermazioni sono vere fino a prova contraria e non sono vere per effetto di una fede o di una fiducia, lo sono perché sono frutto di un metodo razionale, che aspetta di essere confutato e ribaltato anch’esso. Nel frattempo, le utilizziamo perché il rigore con cui le abbiamo a lungo costruite ci è utile, senz’altro più del caos o della casualità.
  2. Nonostante sia importante lasciare spazio alla possibilità che alcune teorie possano essere confutate (pensiamo alla teoria della relatività di recente acquisizione) è altrettando vero che di Einstein non ne nascono tutti i giorni.
  3. Per chi non fosse tanto pratico di ricerca scientifica (o per chi avesse la convizione limitante di non capirci niente), salvo nei casi in cui a interessarci siano proprio casi isolati di alcuni fenomeni (i così detti outliers) in generale la verifica di una ipotesi ripetuta più volte su numerosi casi fornisce una più elevata probabilità che le conclusioni siano quanto più vicine alla verità. La Ricerca Scientifica parte da un’ampia conoscenza di un fenomeno a seguito del quale il ricercatore elabora o individua un problema da risolvere che determina la definizione di un’ipotesi di ricerca; l’acquisizione dei dati è l’ultimo anello di una catena lunga e minuziosamente progettata, volta a confutare l’ipotesi per costruirne, eventualmente, una diversa. Se è chiaro cosa c’è dietro un disegno di ricerca, è facile comprendere come l’affermazione Mio nonno ha vissuto cent’anni e fumava! perde completamente di valore, qualora lo scopo sia quello di convincere qualcuno che il fumo effettivamente non sia dannoso per la salute o, addirittura, si scegliesse di creare una campagna di comunicazione istituzionale sui benefici del fumo, data l’abbondante ed esaustiva letteratura scientifica sul tema e nessun dato a smetita della stessa.
  4. Un ultimo appunto sulla Ricerca Scientifica riguarda la distinzione corrente – la si trova anche nei documenti del MIUR – tra Ricerca Scientifica Pura e Ricerca Industriale o Applicata. Come ho affermato nel mio intervento di apertura al Tavolo interno di Ricerca in AICP, la distinzione non ha molta ragione di esistere: la Ricerca Scientifica è tale se è di qualità e ha come primo scopo la conoscenza. L’applicazione di una tecnologia ne è solo una eventuale conseguenza. Se la ricerca ha come scopo l’applicazione di una tecnica non solo non ha senso chiamarla scientifica ma spesso rischia di scivolare in ambiti dove l’etica viene a mancare. (Qual è il senso dell’elaborare dei dati per cercare quello che si vuole trovare?).
  5. Fin qui tutto bene (neanche tanto).

 

 

Una mini guida a supporto di chi vuole capirci di più

Cosa faccio se sono un poco pratico di ricerca scientifica o di analisi di dati?

Ci sono due livelli di impegno per l’accesso ai risultati delle ricerche, a seconda degli strumenti che si hanno a disposizione. Se si ha qualche rudimento di statistica (lettura di dati) o di lettura di materiale scientifico, si possono consultare i risultati delle analisi e delle ricerche che altri hanno fatto per noi.

I criteri minimi possono essere così riassunti:

  • le ricerche devono essere pubblicate su siti istituzionali (non siti di singoli ricercatori o di aziende private);
  • le ricerche devono essere publicate su riviste scientifiche di qualità, vale a dire che abbiano un Impact Factor o Site Score; se la rivista non ha un IF, che almeno sia affiliata a un istituto di ricerca indipendente;
  • le ricerche devono essere publicate su riviste scientifiche peer review.

A tale scopo, SCOPUS è un sito dove si possono verificare gratuitamente (senza essere registrati) queste informazioni.

 

Cosa faccio se non sono pratico di ricerca scientifica o di analisi di dati?

Se non mi sento di avere strumenti per esaminare dati o ricerche, né tantomeno letteratura scientifica, devo affidarmi a un esperto.

I criteri minimi per riconoscere un esperto si riconducono a quelli dell’individuazione di studi di qualità, vale a dire un esperto è un ricercatore affiliato a una istituzione (centro di ricerca, università) indipendente che fa ricerca scientifica. Un esperto non è tale perché lo senti parlare in televisione, alla radio, o sulla stampa nazionale o locale.

 

In riferimento alla crisi sanitaria attuale può essere utile tener conto delle seguenti considerazioni aggiuntive.

Che esperto consultare quando siamo di fronte a un’epidemia? Occorre chiedersi qual è lo scopo per cui lo cerchiamo.

  1. Se non stiamo bene, cerchiamo un clinico. Il clinico è colui che conosce la malattia e i protocolli per la cura. Un buon clinico è un esperto di quella malattia o ambito di cura.
  2. Se vogliamo informarci sulla malattia, cerchiamo un epidemiologo. Un epidemiologo è colui che sa come leggere i dati clinici. Un buon epidemiologo è un esperto di ricerca scientifica in ambito clinico sanitario. La distinzione tra clinico ed epidemiologo è fondamentale.

 

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Note.

[1] <<My mentality was to go out ans win, at any cost>>, afferma Micheal Jordan nel documentario The Last DanceUno dei modi per avere un’idea sulle sue convinzioni potenzianti.

 

[2] Principali riferimenti:

Ryan RM, Deci EL. 2017. Self-Determination Theory: Autonomy and Basic Psychological Needs in Human Motivation, Social Development, and Wellness. New York: Gilford.

Edward L. Deci, Anja H. Olafsen, Richard M. Ryan 2017. Deci E.L. et al. 2017. Self-Determination Theory in Work Organizations: The State of a Science. Annual Review of Organizational Psychology and Organizational Behavior (4)1, pp 19-43.

2020-12-12T17:13:47+01:00