Il baratro della dualità

C’era una volta

In una masterclass di storytelling, Salman Rushdie racconta che ci sono per lui due modi per scrivere le cose molto bene – parla in realtà di due tipi di scrittori: i minimalisti e i massimalisti. I minimalisti sono quelli che di un dettaglio, da un capello della dea della letteratura e dalla luce che cattura da ogni angolatura, fanno uno straordinario racconto. Lo spirito massimalista è invece di colui/lei che dentro una storia infila un’intera enciclopedia.

Conclude dicendo che dal suo punto di vista tutto ciò che è nel mezzo è meno interessante.

Come a dire, ho pensato io, che i Promessi Sposi tutto sommato non sono un granché; tantomeno Alessandro Manzoni. Ho poi pensato, lungo quei dialoghi interni noti ai più nei quali bisogna che qualcun altro prenda la parola per non finire in un vicolo cieco: magari Rushdie si rivolge agli scrittori contemporanei. Ha preso parola un altro partecipante al tavolo della discussione che ha esclamato: peggio ancora!

 

Il baratro della dualità

È bianco o è nero? Sei d’accordo o no? Mi ami o non mi ami? Essere o non essere? Qualità o non-qualità? Sei pro-vax o no-vax? (Orrore). Sei una persona razionale o creativa? (altro orrore). Preferisci la sicurezza o l’avventura? Queste domande hanno senso oppure no?

Lo diciamo da sempre che in medio stat virtus. Si ma poi nei fatti stare nel mezzo non ci appartiene. Non solo stare nella media, nella moderazione, non ci permette di conoscere: vivere gli estremi, spingersi un po’ oltre i limiti – gli adolescenti lo sanno molto bene – è necessario, per sapere cosa farne di quei limiti, per conoscere, per conoscersi. Inoltre, come scrive Giuseppe Zollo in uno dei suoi racconti Zen sulla qualità (“Il sandalo”), la qualità della media è non-qualità. La qualità è nella differenza: proprio quando abbiamo sperimentato e analizzato il bianco e il nero, il camminare con un piede scalzo e con il sandalo all’altro piede, che possiamo comprendere la qualità del passo che ci conduce a casa. 

Ebbene, da quale parte andare?

 

La continuità

Pensare alla dualità, all’esiguità della finitezza delle possibilità, può condurre alla ricerca di una “soluzione” nella continuità, all’infinito che esiste nell’infinitesimo.  Conosciamo anche quella e può convincerci parecchio: quando pensiamo al suono, a un tasto suonato sul pianoforte; alle nostre identità, alla nascita e alla morte; a una misurazione fatta con il metro nelle mani, a un punto, allo zero; alla notte che diventa giorno. Ecco che anche la continuità può disorientare, quanto la discontinuità o la dualità sembravano farci precipitare: si perde ogni punto di riferimento e l’ordine con cui proviamo a rappresentare le cose diventa caos. La continuità, tornando al saggio di Crary già citato nell’articolo Un occhio aperto e uno chiuso, quando è assoluta rischia di farci perdere l’esperienza di quei luoghi di confine lungo i quali vogliamo intenzionalmente mettere un segno, di farci dimenticare che un limite esiste (non essere connessi 24 ore al giorno 7 giorni su sette); un luogo dove ciascuno può rendersi conto della propria finitezza e solo così, seguendo un ragionamento tipico della cultura greca, riuscire nel tentativo di superarsi e dare un senso alla propria vita. Sapere che esiste un limite può essere estremamente utile; è umano.

È un altro punto di vista. E mi dice che pure la continuità sola no, non va bene.

 

Oscillare

Oscillare è movimento che tutti conosciamo ma che non sempre sappiamo e che restituisce rilevanza a diverse modalità del vivere e alla stessa contraddizione.  È la soluzione che per esempio la complessità propone nel mettere in discussione la scienza classica, la quale riduce i fenomeni alla loro analisi senza considerare l’insieme, la relazione tra le parti e la qualità che emerge dal legame con chi quei fenomeni li osserva.

Lontano dal suo significato generico e di senso comune, che riconduce sovente a qualcosa di complicato o semplicemente di impossibile da conoscere, la complessità propone un nuovo modo di conoscere il mondo che tenga conto del suo essere continuità e discontinuità, ordine e non ordine, in un continuum fatto di tempo e di spazio, che pure talvolta consideriamo come due elementi distinti. La soluzione non è l’una né l’altra ma il movimento tra l’una e l’altra e proprio ciò che le mette in relazione.

La luce, concepita come oscillazione armonica di tempo e spazio è spesso vissuta, sentita, come “soluzione” (Ogni cosa è illuminata1), e quindi intuitivamente rassicurante, non senza che in essa non sia pure contemplato il buio; nella pratica, l’oscillazione racchiude tutta la fatica dell’esistenza umana.

Tornando alla masterclass di Rushdie sarà inciampato anche lui nel baratro della dualità?

Non senza nascondere un timore, mi chiedo se sia possibile sottrarre almeno l’arte della narrazione alle regole dell’analisi e della semplificazione, per tornare a ciò che della narrazione davvero conta: la ricerca. La ricerca di chi quella narrazione la genera, il cammino di chi osserva e si osserva provando a dare un senso che non esiste fuori da sé (non esiste senso senza consenso2), in una spirale che può essere tavolta dettaglio, talvolta enciclopedia, ma in cui conta come i mondi al suo interno si incontrano e come li incontra chi li incontra.

 

La spirale del raccontare

Siamo la specie delle storie. Raccontare storie ci salva. Raccontare, raccontarsela, scrivere e riscrivere la propria storia – personale, di comunità, di paesi e Paesi – scrivere la Storia, non importa quanto veritiera sia – chi può dirlo – è una pratica che la specie umana ha scoperto o inventato e in ogni caso riconosciuto fondamentale e mai più abbandonato. È attraverso il narrare e lo scrivere storie che l’essere umano sopporta il peso dell’esistenza, nel trovare un modo più coraggioso e sostenibile di osservare ciò che appare inguardabile come fissare il sole (da Staring at the Sun3). Raccontare e ascoltare storie consente di conoscere, permette di viaggiare, di fare ordine e di trasformare; di andare laddove non si potrebbe andare. La narrazione ai bambini consente di crescere concedendosi tutto, conoscendo un po’ di quel tutto ma restandone illesi. E ancora: scrivere è “la più piccola” azione concreta per cambiare qualcosa.

Guai allora a pensare che ci sia una storia sola, o un modo solo (due) per scrivere una storia. È nel narrare pratichiamo l’oscillazione tra ordine e disordine o forse creiamo ordine sperimentando il grande caos.

Le storie, che non si raccontano solo con le parole, hanno bisogno di una grande fame e uno straordinario apparanto digerente: detto in altri termini occorre allenare la propria curiosità, il proprio amore per la conoscenza, la propria apertura mentale e il proprio coraggio. Spesso è così che facilitiamo anche negli altri l’avvicinarsi alla narrazione.

E allora, a Salman Rushdie e a tutti i maestri del narrare: proviamo a non cadere nel baratro della dualità perché la ricerca del narrare sia piuttosto quella spirale, che tra finitezza, incompiutezza e infinito possa consentire a ciascuno di trovare ogni giorno un cammino da percorrere.

~

1 di Jonathan Safran Foer, 2002.
2 concetto di Vito Mancuso.
3 Irvin Yalom, Staring at the Sun: Overcoming the terror of death. 2008

2022-01-01T11:15:20+01:00