Paure e paure

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Ci sono paure giuste e paure sbagliate?

Capita di dirsi, o di dire a chi abbiamo di fronte, ‘non devi avere paura, ‘non c’è motivo di avere paura. L’affermazione, che è detta per lo più allo scopo di tranquillizzare, sappiamo essere piuttosto vana. Chi ha paura non sente ragioni.

Nel porre la domanda se esista una morale della paura, se esistono paure più giuste di altre, ho provato a scandagliare un po’ del mio tempo, dei miei ricordi, cercando esperienza diretta delle paure nei miei amici, nei miei cari, le mie, per ipotizzare risposte e per rendere la domanda stessa più consistente.

Quante paure. La paura di volare, la paura dell’altezza; la paura di fare un esame, di fare gli esami, di quel prof, dell’interrogazione; la paura degli aghi, del prelievo del sangue; la paura dei ragni, dei serpenti; la paura di dire a un compagno o a una compagna non so più stare con te; la paura di denunciare una violenza; la paura di perdere il lavoro; la paura della diversità. La paura di affrontare un cambiamento; la paura, più in generale, di prendere una decisione. La paura di avere paura. E ancora: la paura di perdere potere e consenso; la paura degli altri; la paura di scoprire un lato scuro di sé, di scoprire un limite. C’è pure la paura di scoprire la propria grandezza, perché poi anche con quella bisogna farci i conti. Ce ne sono una infinità. E poi c’è la paura generalizzata, che non sa collocarsi, collegarsi a niente.

È giusto avere paura di un esame? È più giusto avere paura di lanciarsi da uno scoglio o di scendere sotto il mare? Esistono paure più giuste e paure meno giuste? Ha più dignità la paura di un bimbo o quella di un aziano? E quando abbiamo a che fare con una paura che non si sa cosa sia?

Non sono sicura di avere una risposta. Ammetto che una intuizione sottile mi dice che le paure abbiano pari dignità, che non esiste gerarchia, ma non mi convince fino in fondo.

 

Piccolo recap sulla paura

Cos’è. Provando a trattarla nel modo più semplice possibile, per chi non ci avesse mai riflettuto più di tanto, si può affermare che la paura è una emozione o uno stato di tensione che ci informa di un pericolo. Al più sudano le mani, tremano le gambe, batte più forte il cuore. Pur essendo tutto ciò spiacevole, non possiamo dire che la paura sia negativa: ogni informazione è difatti qualcosa di buono e il suo passaggio dura relativamente poco.

Cosa ne facciamo. La famosa e un po’ sovrastimata intelligenza emotiva – l’abilità, che tutti possono allenare e sviluppare, di riconoscere e gestire le proprie emozioni quando si manifestano – ci consente di gestire la paura: vuol dire sapersi prendere il tempo della consapevolezza per chiedersi cosa mi succede? Cosa ho bisogno di fare? Senza questo tempo e questa possibilità si rischia di soccombere alla paura: scappare (dalle scelte, dalle opportunità), immobilizzarsi, aggredire. Ma non è sempre così semplice.

Pur allenando l’intelligenza nella gestione delle emozioni, ricondurre una paura a un qualcosa di specifico spesso è molto difficile. Ci sono paure diffuse e generalizzate che rischiano di cronicizzare e di annebbiare ancora di più la mente di chi le vive. Un dialogo che può esserti familiare è il senguente:

  • ma qual è il problema? di cosa hai paura?
  • non c’è nessun problema! … non lo so.

Dalle emozioni ai sentimenti virtuosi. L’allenamento e l’abitudine al tempo della consapevolezza, di cui si è appena accennato, è ciò che consente a un soggetto di fare un salto dall’emozione al sentimento. Il sentimento fortifica perché è un elemento del nostro vivere più solido, duraturo e funzionale, ci consente di evolvere dalle emozioni, di essere più integrati nel vivere. Le emozioni in un soggetto sano ci sono sempre e, come si è appena affermato, ciò è buono; gestirle vuol dire usarle per nutrire i sentimenti. Se le emozioni sono il vento, i sentimenti sono la casa: l’amicizia, la cooperazione, il coraggio, la fiducia sono solo alcuni dei sentimenti – valori, virtù umane e potenzialità del carattere – ai quali ciascuno può lavorare per fare più solida la propria casa. È con i sentimenti che si lavora prevalentemente nel coaching.

In questo articolo la riflessione vuole essere più ampia. Lo scopo non è qui fornire elementi su come gestire la paura, ma esplorare l’aspetto condiviso, sociale e democratico delle paure.

 

Quello delle paure è un regno o una democrazia?

Potremmo essere subito portati a pensare che chi è a maggiore rischio soggettivo è più legittimato ad aver paura di chi lo è meno: varrebbe quindi il principio per cui tu che rischi di più sei più legittimato di me ad avere paura. Ma chi decide? Qualcuno potrebbe invece sostenere che le paure più giuste siano quelle più popolari: siccome sono l’unico ad avere quella paura, la mia paura vale meno delle vostre. Sulla base del criterio dell’oggettività la mia paura potrebbe avere poca dignità (e meno della tua) perché si basa su un rischio oggettivo – misurabile e noto – molto basso.

Se quella delle paure è invece una democrazia, forse il criterio sarebbe quello dell’inclusività: le paure andrebbero consierate tutte.

Quali altri criteri ti vengono in mente?

Consideriamo alcuni esempi concreti:

  • hai trent’anni, sei un ragazzo atletico e in buon salute, hai paura di tuffarti da tre metri mentre quell’uomo accanto a te di sessant’anni si è già buttato (ed era la prima volta);
  • hai paura di essere interrogato dal prof. di matematica anche se tutti dicono che è bravo;
  • volare su un aereo è più sicuro che prendere un treno ma tu l’areo non lo prenderai mai;
  • hai paura del buio e per questo dormi con la luce accesa, anche se i tuoi genitori sono a casa nella camera di fianco;
  • hai paura della signora che deve assisterti perché non ti convince anche se tuo figlio dice che è ben referenziata e che devi fidarti;
  • hai paura che il tuo collega possa farsi un’idea completamente sbagliata su come sei, pur sapendo che è una persona ammodo, sempre gentile con tutti;
  • … …

Questi esempi raccontano le paure dal punto di vista di chi le prova. Allo stesso tempo, fanno intravedere l’esistenza di un giudice o criterio esterno (“se sei più giovane devi avere meno paura”; “se il prof è bravo non hai motivo di avere paura”, “i dati statistici dicono che”, etc.) che non sembra avere molta presa, soprattutto sulle decisioni: ogni paura, per chi la prova, ha dignità.

Quando il punto di vista cambia, quando a decidere è un altro, può comparire una gerarchia.

 

Chi stabilisce la gerarchia?

Immagina una famiglia, quattro persone (padre, madre e due figli) che da qualche anno son d’accordo per fare un viaggio in Giappone. Oggi la situazione è la seguente: lei deve andarci per lavoro (teme di perdere credibilità e forse la agognata promozione se dovesse rifiutarsi); lui ha paura di volare, e non ci pensava finché non si è arrivati al momento di decidere; il ragazzo ha già detto alla fidanzata che andava in Giappone (ha paura di perdere credibilità nei suoi confronti); la ragazza ha fatto la maturità a pieni voti e me lo avevate promesso! (Ha paura che in fondo il suo impegno non abbia poi così tanto valore per la famiglia).

Che fare? Chi è bene che decida e con quali criteri?

I contenuti tra parentesi nella narrazione scritta sopra corrispondono a ipotizzate paure non consapevoli. L’unica paura chiara è quella del padre e, in piccola parte, della madre.

Qualche situazione che potrebbe verificarsi, sulla base di criteri diversi:

  • uno dei famigliari sceglie per tutti sulla base della propria paura: per esempio la madre decide che il (suo) lavoro ha la priorità
  • uno dei famigliari sceglie a maggioranza: il padre resta a casa
  • uno dei famigliari, per esempio la ragazza, ritiene che la paura più importante sia quelle di un altro, per esempio del padre, e sceglie in base ad essa: non si va nessuno perché papà ha paura di volare
  • uno dei famigliari sceglie per tutti sulla base della valutazione della paura degli altri: il ragazzo dice Basta si va e papà si farà dare un calmante o qualcosa del genere
  • … …

Altre situazioni che considerino il criterio dell’inclusività:

  • la madre pensa: parlo col mio capo per avere chiaro cosa rischio se non dovessi accettare di andare (affronto le mie difficoltà)
  • la ragazza dice: non si sceglie finché non siamo tutti d’accordo (prendiamo tempo)
  • il ragazzo propone: andiamo qualche giorno via tutti insieme qui vicino e vediamo se troviamo una soluzione (intuizione di lavoro sulle consapevolezze)
  • il padre riflette: è ora che io affronti questa paura (affronto le mie difficoltà)

L’inclusività ha bisogno di tempo.

E ci porta a un altra domanda, la più difficile di tutte: qual è il tempo giusto? Esiste un tempo giusto e un tempo sbagliato per una decisione legata alle nostre paure?

 ~

Tu ce l’hai una paura? Vuoi fare un esercizio con me e dirmi se credi che la tua paura abbia più dignità di paure altrui? Come prendi una decisione? Qual è il tuo tempo giusto?

 

La grande paura

Tutte le paure riconducono a una sola grande paura, che è quella di morire 1. Come fa la paura di essere interrogati a scuola  a ricondurre alla paura di morire? Il tragitto è lungo e irrazionale e riguarda la nostra storia evolutiva, come specie. Il nostro è un vivere biologico e mentale: abbiamo bisogni, fisiologici quanto psicologici, di sopravvivenza, e alcune paure ci fanno avere paura di “morire socialmente”, di restare soli – quindi di morire.

Se prendiamo per buona questa assunzione, forse giudicare una paura più giusta di un’altra perde di significato. Se invece non prendiamo per buona questa assunzione, le paure potrebbero sistemarsi lungo gerarchie che esistono talvolta proprio per ridurre il rischio di morire. Emerge un grande paradosso. “Se un evento è raro non puoi avere paura.”. Non puoi? La paura resta. Forse crea profonde separazioni e spaccature.

 

La paura ci separa o ci salva? Arrendersi

La paura può dividere. In prima battuta ci separa interiormente: lì, se tutto va bene, sappiamo che è questione di attimi. Ciò che mi interessa osservare qui è quando la paura divide due persone in una relazione, una famiglia, un gruppo; può essere la stessa paura o possono essere paure diverse. Io ho paura di perdere la mia libertà, tu hai paura di perdere me; litighiamo, ci separiamo. Tutto questo agisce a livello inconsapevole e deteriora i sentimenti.  Ecco quindi, la paura può dividere comunità, popoli. Io penso che la mia paura abbia più dignità della tua e quindi mi separo da te, o ti aggredisco. Oppure, noi siamo di più, quindi la nostra paura vale di più. La paura può produrre prevaricazione.

Non arrendersi alla paura mi sembra possa causare separazione, guerra, morte, non solo sul piano fisico; prima ancora su quello mentale. Pensare che la paura di un gruppo abbia più dignità di un’altra può produrre discriminazione. Ricordando la grande paura, il bisogno che tutti abbiamo di sopravvivere, sembra ci sia una via per salvarsi: la specie umana esiste (per ora) proprio perché ha intuito la grande convenienza nella cooperazione. Ma oggi cosa può voler dire cooperare e arrendersi alla paura? Cosa accade se io mi arrendo e tu no?

Il passaggio dalla paura che separa alla paura che unisce, mi resta ancora complesso da comprendere. Esiste un livello sentimentale e valoriale che appartiene alle relazioni, ai gruppi, alle comunità, che fa ancora i conti con il livello più intimo e individuale della paura.

Come si può “avere fiducia nel mondo” se io non riesco ad avere fiducia di te?

 

 

Quando io ho paura, tutto si riduce e si annebbia, tutto è pericolo; è impensabile che proprio tu possa essere la mia speranza, che tu proprio sarai la mia soluzione.

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1. Dovrei ‘aver paura’ di parlare di morte qui, su un sito rivolto al miglioramento, al potenziale, alla realizzazione, alla vita. Ma non si può parlare di vita se non si prende in considerazione la morte. Quindi è benvenuto per me qui il tema della morte: a dare valore alla vita.

2021-10-10T11:24:14+02:00