Un occhio aperto e uno chiuso

Hai mai sofferto di insonnia o conosci qualcuno che ne soffre? È una condanna: chi non riesce a dormire, chi non riesce a dormire bene, non riesce a vegliare bene, a stare bene quando è sveglio.

La condizione di un buon sonno ristoratore, facile da comprendere ma talvolta difficile da attuare, si apre a letture della vita e dell’esistenza che vanno anche al di là del dormire.

 

Un universo perennemente ON …

Nel 2013 Jonathan Crary, scrittore e critico d’arte, pubblicò 24/7: Late Capitalist and the End of Sleep (24/7: il tardo capitalismo e la fine del sonno), che venne poi tradotto e distribuito due anni dopo in Italia con il titolo 24/7: Il Capitalismo all’assalto del sonno (Ed. Einaudi 2015).

24/7 non è una data, è un mot d’ordre, come la definiscono Deleuze e Guattari citati dallo stesso Crary, o una sentenza di morte: 24 ore al giorno 7 giorni su 7 è la parola d’ordine che ripone la sua efficacia nell’incompatibilità o discrepanza tra il mondo della vita degli esseri umani e l’evocazione di un universo perennemente on, in cui la modalità off non è assolutamente prevista (inizio del capitolo 2).

Parto da 24/7 intanto per segnalarlo come lettura in questi giorni avanzati d’agosto. Un libro soltanto, in coerenza con i suoi contenuti e i miei propositi. Peraltro è un testo complesso e ricco, oltre che di spunti, anche di riferimenti bibliografici. (Se non avessi voglia o tempo di leggerlo e ne fossi comunque incuriosito, mi riprometto a settembre di inviare una mia sintesi. Fammelo sapere).

È un saggio che raccoglie in sé una serie di testimonianze e riflessioni fatte da punti di vista del sapere diversi (economico, politico, psicologico, filosofico, ingegneristico, artistico) rispetto al tema dell’impossibilità della notte e del sonno, causati non solo da quella che viene definita impropriamente “era” digitale (così come spiegato a p. 40) ma anche da una imposizione di consumi continui che, insieme a quelle dell’impiego di sempre nuove tecnologie e mezzi tecnologici, hanno assunto un senso e una logica di continuità poco chiari.

La storia di un tentativo di imporre un universo perennemente on mi colpì allora, in quella prima lettura; a rileggerlo dopo l’esperienza da lockdown per via del Covid-19 mi fa un effetto rinnovato e ancora diverso.

Parto da 24/7 soprattutto perché, avendo voluto rileggerlo a distanza di cinque anni, mi apre una visione delle storie di vita che ho raccolto in questi mesi più ampia e chiara; e da lì voglio partire per raccontarle.

 

… improvvisamente OFF

Il lockdown ha fermato tutti, o quasi.
Tra marzo e maggio ho ricevuto diverse lettere in risposta alla domanda Come stai?. Avevo lasciato la domanda sul web a marzo per dare la possibilità a chi desiderasse o ne sentisse il bisogno di appoggiarsi alla mia presenza e alla mia professione in quello strano momento. Ho ricevuto tanti grazie e tante storie. La mia domanda era semplice; mi ha permesso di raccogliere racconti di esistenze così come erano vissuti in quel momento.
Dopo aver restituito a ciascun narratore ciò che avevo promesso (il potenziale caratteriale espresso tra le righe e nelle storie, che potesse costituire leva per sapersi di più e sostenere il momento, se non addirittura farsi promotore di cambiamento desiderato), mi sono ritrovata a guardare quei racconti nel loro insieme. In pieno rispetto per la privacy di chi mi ha raccontato, questo articolo ne è una sintesi e anche spunto di riflessione per chi è ripartito, o deve ripartire, in presenza o a distanza.

 

Come siete stati

La preoccupazione legata alla condizione globale di rischio sanitario, espressa in apertura e liquidata dopo qualche riga, oppure relegata al fondo, delle tante delle mail ricevute, è stata preambolo di, o congedo per, altre preoccupazioni più profonde: da un lato, il grande senso di disorientamento del non capirci niente; dall’altro, la paura di tornare alla normalità.

Solitudine, disorientamento, paura di tornare alla normalità. Sono i temi, le parole, i contenuti che sintetizzano le lettere ricevute.

Solitudine. Chi mi ha scritto di sentirsi solo non viveva da solo ma dichiarava di sentirlo, ci si sentiva nonostante la presenza di un compagno, di una famiglia, di colleghi (in diversi lavoravano durante il lockdown, a casa o in ufficio). La solitudine espressa era legata alla sensazione di impossibilità o difficoltà a dichiarare una propria condizione di disagio e disorientamento alle persone con cui si stavano condividendo in modo nuovo spazi, sia domestici che lavorativi, ristretti da un lato ma più ampi dall’altro. La solitudine che è emersa esisteva già ma, nel lockdown, si è fatta sentire. La racconto qui e le do voce perché è un sentire che fa sempre più fatica a trovarla; sempre più labile è il tempo per osservarla e sempre più evanescente lo spazio per raccontarcela. Le solitudini sono urlate raramente sui social dove passano veloci e restano, appunto, solitudini.

Solitudine e disorientamento. La solitudine e il disorientamento li ho letti anche tra le righe di chi è stato costretto a gestire i propri dipendenti nel lavoro a distanza (e con lo smartworking). Un senso di perdita di controllo e inefficacia in quelle situazioni in cui la presenza e una risposta costante del lavoratore non sembrabano garantite: condizioni che, se ci pensiamo bene, dovrebbe essere consentite oltre che normali.

Sensi di colpa. In alcune mail, chi mi ha scritto si sentiva in colpa: il non riuscire a capire niente è stato in diversi vissuto come una mancanza personale. Perché non riesco a capire? Come fosse un limite personale, una mancata laurea, specializzazione, un non sufficiente impegno nel tentativo di capire, una incapacità di seguire, gestire, discernere l’informazione. Al contrario della grande saccenteria ostentata sui social, le mail che ho ricevuto raccontavano di disorientamento e impossibilità a sapere. Durante il mese di marzo io ho trascorso diverse ore ad ascoltare e leggere relazioni scientifiche e articoli provenienti dai più disparati contesti culturali e accademici; ho competenze epidemiologiche, statistiche, linguistiche e sanitarie, un mix perfetto di strumenti se si vuole tentare di andare a fondo e provare a capire. Pur sentendo di potermi difendere da una serie di notizie nonsense, non sono riuscita a sapere neanche io. Ma una cosa mi è stata chiara: che il problema non è la difficoltà nel trovare il bandolo alla matassa, ma un livello di competizione non sana del contesto scientifico che mai avrei voluto vedere così forte; la salute pubblica e la ricerca scientifica dovrebbero essere libere da logiche di potere e di prevaricazione almeno in un mondo, come lo definisce qualcuno, evoluto. La crisi ne è stata una cassa amplificatrice.

Non voglio tornare alla normalità. Ma gran parte del senso di colpa di chi mi ha scritto riguardava un altro aspetto: mi vergogno a dirlo, ma io sto bene. Leggere tante lettere di chi, in fondo, dichiarava di stare proprio bene, di sentirsi tranquillo come mai prima, mi ha fatto bene. E lo riporto qui perché quello è un piccolo atto di coraggio che può dare coraggio anche a chi legge. Stare bene è un il miglior presupposto per qualunque azione a beneficio dell’altrui bene. Stare bene, anche in una situazione difficile, è proprio come saper prendersi il tempo per un buon sonno: quella condizione di off, di perdita di controllo, di accettazione di un non sapere, che consente, allora, una buona veglia, una conoscenza critica; la vita.

Ci voleva la pandemia, ha scritto qualcuno. Ci voleva davvero un virus per trovare del tempo per sé, per stare coi figli fino a dire di non sopportarli, per fare le cose con calma? Ci voleva un virus per fermarsi a vedere, per respirare a fondo, per fare le cose col tempo che meritano, per ripensare quel sogno, per guardare l’insensatezza di un lavoro, per licenziarsi, per chiedersi cos’è davvero importante?

 

Come staremo?

Il non avere tempo, tempo per fermarsi e capire, è un tema, spesso il tema, di gran parte delle partenze dei percorsi di coaching che seguo. Ma c’è chi neppure comincia.

Se è vero che sentire di non avere tempo può essere un buon movente per agire un piccolo, privato, cambiamento, è parimenti vero, ed è ciò che mi interessa qui, che è importante chiedersi e comprendere quanto questa corrente del correre sia riuscita a condizionarci senza che la si sia effettivamente scelta. Hai scelto tu di iscriverti alla “maratona” come fossero i quattrocento metri a ostacoli? Oppure chi ti ha iscritto? E perché?

Se esiste una responsabilità individuale ora è quella di prendere consapevolezza di quanto sia possibile scegliere questo modo di stare al mondo e quanto no. Di quanto si voglia o si possa effettivamente dormire, staccare, perdere il controllo; fermarsi. Perché fermarsi non vuol dire non fare niente. Fermarsi vuol dire potere porsi delle domande, è un lavoro di ristoro da un lato e consapevolezza dall’altro. Fermarsi è un lavoro che trova il tempo per condividere e consente così di pensarsi ancora insieme, nei bisogni, nelle scelte e nella costruzione di un bene che sia comune e che sarebbe difficile costruirsi da soli. Col virus è stato finalmente chiaro a tutti: non possiamo fare come se non sapessimo che c’è gente che, là vicino, muore.

Fermarsi e staccare, accettare di perdere quell’apparente controllo che abbiamo sulle cose, sulle notizie, sulle immagini e le informazioni, ci permette di non subire il controllo altrui e di avere, quando riattacchiamo, pieno controllo e consapevolezza. E poi parlarsi, ascoltarsi, incontrarsi o farsi da tramite perché ciò accada; è uno degli obiettivi di questo articolo, oltre che del mio lavoro.

 

La possibilità della notte crea la possibilità del giorno

Il lockdown è stato, per certi versi, anche la rottura di quel tentativo di vita perennemente on. Ci si è dovuti fermare, si è stati autorizzati, o forzati, a farlo. Ma ora, con una ripartenza in condizioni di riduzione generale della fiducia da un lato (il distanziamento sociale!) e di maggiore isolamento da un altro (lo smartworking e l’avanzare di questa “era” digitale), il rischio che corriamo tutti è che si rafforzi quell’effetto di sintonizzazione di massa della coscienza e della memoria che porta a una perdita totale di identità soggettiva, da un lato, e a una perdita di partecipazione alla costruzione di una storia e di significati condivisi, dall’altro (in 24/7 a p.55), in altri termini a ciò che ci rende Umani. Perdere la memoria, tra le generazioni di adulti, e ridurre al minimo tutte le condizioni per la costruzione dell’empatia, tra i giovani, può generare un sorta di ratchet effect (effetto ruota dentata ovvero di non ritorno), come quello descritto da Robert Higgs in riferimento alla storia dei governi americani che si sono succeduti nel tempo: si passa a uno stato successivo di assoggettamento da cui sembra non si possa tornare indietro.

Mi hanno raccontato la solitudine, il disorientamento, la perdita di controllo, e il paradosso del benessere: per quanto doloroso sia stato nell’esperienza individuale e degno di attenzione e vicinanza, voglio leggerlo, in una sintesi, come un inno alla possibilità della notte, un inno a un ritrovato sonno ristoratore che restituisce la possibilità del giorno. Perché quando dormiamo siamo soli, perdiamo il controllo, e stiamo molto bene.

In tanti siete stati bene. E, senza vergogna perché ora sono io a dirlo, quel benessere è un tempo che avremmo dovuto prenderci da tempo. La possibilità della notte crea e rende salva una possibilità del giorno: di una vita in cui si può scegliere, in cui si può sapere, in cui si vive consapevoli anche di ciò di cui non siamo completamente liberi.

Una frase, tra le tante mail ricevute, mi ha colpito più di tutte: sento il dolore di essere viva. La condizione di fermo ha messo di fronte a una donna la sua esistenza e si è fatta sentire con tutto il dolore e la vitalità, perché vitalità non significa sempre gioia. Sento il dolore di essere viva è un atto di coraggio di chi vuole trasformare quel dolore in rinascita.

~

PS.

A tutti gli insonni che potrebbero essersi sentiti non sufficientemente considerati in questo articolo: suggerisco un meraviglioso testo di Ruediger Dahlke, Il sonno, la parte migliore della vita. Ed. Mediterranee 2006.

NOTA METODOLOGICA.

La sintesi qui riportata è frutto di una analisi qualitiva degli scritti che non vuole assolutamente essere rappresentativa di una totalità né, quindi, avere significatività statistica; è il racconto di ciò che ho osservato in quel gruppo di mail ricevute da rispondenti estremamente eterogenei in termini di età (pochi giovani; prevalentemente adulti) professioni (studenti, ricercatori, impiegati, casalinghe, dirigenti) provenienza geografica (Italia, Polonia, Germania, UK, USA). È una sintesi che ritengo utile come piccolo contributo di valore per comprendere la complessità che viviamo.

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     – Charlie: Ti vogliono al telefono

     – Snoopy: Cavolo. Dì loro che sono impegnato

     – Charlie: Gli dirò che stai dormendo

     – Snoopy: Dormire è essere impegnati!

2020-08-04T16:14:58+02:00