La competizione

//La competizione

La competizione è una faccenda delicata.

Mi è capitato, all’interno di un gruppo informale, di porre la domanda: Cos’è per voi la competizione? Ciò che ho osservato è stata lo schieramento dei soggetti in due fazioni. Una è di quelli che fanno riferimento alla società, ai mercati finanziari, alle leggi di sopravvivenza con un atteggiamento del tipo “so bene di cosa si tratta, so come gestire la cosa”; si tengono alla larga, considerando la questione della competizione come un argomento di -sola- macroeconomia. L’altra di coloro che invece dichiarano senza esitare che la competizione è una questione personale, da vivere solo con se stessi.

Quando la conversazione si fa profonda e privata, ciascuno riconosce in sé l’esistenza di entrambe le dimensioni e, talvolta, la difficoltà a farle coesistere. La difficoltà mi è sembrata, da un lato, quella di poter effettivamente sottrarsi ai meccanismi competitivi che producono stress o ansia (anche se si fa di tutto per tenerli sotto controllo); dall’altro, la consapevolezza che la “questione personale” sia spesso sollecitata da fattori esterni ovvero dalla presenza di un avversario in carne e ossa. In diversi hanno confessato che la competizione è schiacciante, talmente difficile da sostenere che piuttosto viene evitata; qualcuno dichiara “io non sono per nulla competitivo”, come a dire “io quella malattia non ce l’ho!”. Talvolta si fa appello al tempo (tra i più frequenti capri espiatori), quel tempo tiranno che passa troppo velocemente, come se a competere ci fosse proprio lui, Mr. Tempo con tanto di barba e cappello. “…non ho avuto il tempo necessario… se solo avessi avuto più tempo..!”

I sostenitori della competizione sono in gran parte gli sportivi. Molti atleti a livello amatoriale (non sarà un caso che si chiamano amatori!) si sottopongono alla competizione perché la amano, si divertono; per loro rappresenta un gioco e una fonte di vitalità. L’avversario, nello sport, è fondamentale.

Che significato attribuire alla competizione?

Avrebbe senso sottrarsene? Sarebbe davvero possibile?

Come vivere positivamente la competizione?

Tornando innanzitutto all’etimo della parola. COMPETERE, dal latino, vuol dire andare verso (petere) insieme (cum), e cioè convergere in un medesimo punto, andando insieme. Questa lettura tranquillizza. Io corro una maratona e non lo faccio da solo, lo faccio assieme ad altre persone. Sono loro i miei avversari? Per chi sceglie uno sport individuale l’avversario è una montagna ripida, un’onda gigante, l’altezza da cui buttarsi nel vuoto. Non si è mai visto un atleta di rafting con muta ed elmetto pogare in un ruscello di campagna. Aver davanti un uomo come avversario fa forse più paura di un salto nel vuoto? In una maratona, il punto in cui convergere insieme è l’ARRIVO? Chi è il vero avversario?

La psicologia dello sviluppo considera competizione, cooperazione e comportamento pro-sociale essere le tre modalità interattive con cui un bambino o adolescente fa fronte ai “compiti di sviluppo”, cioè a quegli obiettivi da raggiungere o problemi da risolvere che deve affrontare quando la sua maturazione incontra le richieste poste dal contesto in cui egli è inserito (Havighurst, 1953, 1972). A differenza della cooperazione e del comportamento pro-sociale – entrambe strategie di sviluppo con accezione positiva – alla competizione viene attribuito un valore positivo o negativo a seconda dell'”interlocutore” (inteso qui come entità cun cui si interagisce): se si tratta della realtà esterna che impone dei vincoli oppure del sé con i suoi limiti, la competizione acquisisce valore positivo in quanto è funzionale al riconoscimento di tali limiti, all’affermazione del sé e delle sue capacità; al superamento della frustrazione. Se l'”interlocutore” è l’altro, se si compete per essere di più dell’altro, alla competizione è dato valore negativo perché fa nascere una vera e propria lotta e può, in definitiva, assumere forme aggressive e addirittura distruttive.

Gallwey fa convergere i due “interlcutori” in uno quando racconta, partendo dalla sua esperienza personale, Il significato della competizione in The inner game of Tennis (The Meaning of Competition, cap. 9). Egli spiega che l’esistenza dell’altro è positiva se, e solo se, vissuta come funzionale all’incontro col sé. In sostanza, l’altro non è visto come qualcuno contro cui lottare o sul quale predominare, ma come pretesto per dare il meglio di sé. Io corro una maratona assieme ad altre migliaia di persone perché in questo modo ho la migliore occasione per conoscere i miei limiti e provare ad andarvi oltre. Tanto più gli altri concorrenti saranno bravi, tanto più avrò occasione per migliorare me stesso.

Ma come si fa?

Nel libro che racconta la sua storia, Andre Agassi sembra aver impiegato un’intera carriera per apprenderlo (Open, ed. Einaudi). Nel romanzo la storia del tennista di Las Vegas altro non è che un lungo cammino verso la comprensione del senso più puro del competere: migliorarsi, e soprattutto conoscersi (il suo cammino sembra sia stato estremamente faticoso; una review del romanzo è COMING SOON!). A pagina 54 scrive: “Papà dice che quando tirava di boxe voleva sempre buscarsi il colpo migliore dell’avversario. Me lo racconta un giorno sul campo da tennis: Se sai di esserti beccato il colpo migliore di quell’altro, e sei ancora in piedi, e lui lo sa, gli strapperai il cuore. Nel tennis, dice, la regola è la stessa.”.

Il tennis rappresenta uno degli sport più competitivi e mentali ; in The inner game of Tennis, Gallwey parla della sua esperienza come istruttore, e a tal proposito scrive: “Molti bambini e adolescenti sono intrappolati nella convinzione che il loro valore dipenda dalla loro abilità a giocare a tennis (come da altre abilità); per questi ragazzi, giocare bene e vincere rappresenta una questione di vita o di morte. […] È come se alcuni credessero che solo essendo i migliori, solo essendo vincenti, si possa meritare l’amore e il rispetto che cercano1“. Cosa accade ai ragazzi a cui è stato insegnato di misurare se stessi in questo modo? Diventano adulti guidati dall’ossessione del successo e dal bisogno di oscurare gli altri. Diventano adulti che vivono male la competizione. Quel che è peggio, è che questi adulti, avendo come unico scopo quello di raggiungere il successo, si precludono la possibilità di sviluppare altre potenzialità di cui dispongono (ricordo che nel coaching, una potenzialità non è solo un’abilità ma un’abilità che rende felici).

Tra coloro che vivono male la competizione, mentre alcuni sono quindi intrappolati dalla compulsione di vincere, altri si ribellano e prendono le distanze dalla competizione, criticandola con veemenza e puntando il dito contro un modello culturale che definiscono crudele perché dà valore solo ai vincenti ignorando le qualità positive dei mediocri. Chi sono questi soggetti? Scrive Gallwey: “molti di questi sono ragazzi che hanno subìto una forte pressione competitiva all’interno della famiglia e della società”. Prendere le distanze quindi non sempre vuol dire vivere bene la competizione: un esempio è di coloro che nel riferirsi a un collega o al proprio capo, ne parlano con astio, nonostante non ne condividano i valori né la brama di successo.

Questo vuol dire che la competizione può essere schiacciante sia per chi schiaccia che per chi viene schiacciato.

“Insegnando loro”, continua G, “osservo come spesso facciano di tutto per fallire, per perdere. Sembra che cerchino di sbagliare perché non fanno nessuno sforzo per vincere un match. Scioperano.” Scioperando, le persone che non riescono a reggere la competizione, si creano un alibi. Avrebbero potuto perdere, si dicono probabilmente, ma non hanno provato. Ciò che è più importante, è invece il fatto che avrebbero potuto vincere. Scrive Mandela: “La nostra paura più profonda non è di essere inadeguati. La nostra paura più profonda, è di essere potenti oltre ogni limite.”

Appare evidente che attribuire un significato univoco alla competizione sia impossibile. Da un lato esiste la parola, quell’insieme di cinque sillabe che risuonano in modo diverso a seconda del vissuto del soggetto che la considera; dall’altro esiste appunto un vissuto, che può consentire o meno un confronto sereno con l’altro, a prescindere dal fatto di chiamarla “competizione”. La questione è che sottrarsi alla competizione è pressoché impossibile. La prima arena di competizione (tolta quella familiare, se si è fortunati) è la scuola: il sistema scolastico mette gli adolescenti di fronte a un confronto duro: il voto; proprio gli adolescenti, che per definizione vivono la fase più impegnativa di sviluppo psico-fisico e che per la natura stessa della loro evoluzione hanno tempi e modi diversi di sviluppo, sono chiamati ad un confronto che difficilmente prevede personalizzazioni o che dia valore alla loro unicità. A seguire: l’accesso all’università; l’ammissione e la partecipazione a un concorso; l’assunzione in un posto di lavoro; l’acquisizione di un cliente; l’ambiente di lavoro…. Pensare di sottrarsi alla competizione vorrebbe dire subirne gli effetti negativi senza poterli conoscere. Per chi vive la competizione come un modo per affermare la propria superiorità, la stessa potrà alimentarne l’insicurezza; per chi invece crede di poter evitare la competizione, soffrirà tutte le volte che realizzerà qualcosa di buono, ovvero farà di tutto per non realizzarlo.

Per tutti coloro che, in un modo o nell’altro, vivono male la competizione, è possibile riconsiderarne a fondo il senso per vederne le potenzialità. Per esempio: se trattassimo la competizione come un coachee (cioè il cliente di un coach)? Se ciascuno facesse da coach al proprio sé competitivo?

Cos’hai di buono, competizione?

Il mio ipotetico coachee suggerisce che il presupposto di un confronto sia l’incontro. Per potersi confrontare con l’altro occorre incontrarlo: l’incontro arricchisce, soprattutto in termini di conoscenza di sé, così che il confronto vada in secondo piano mettendo in luce la propria prestazione e la capacità di goderne. Allo stesso tempo, dando del nostro meglio, siamo noi a poter arricchire l’altro. L’altro è l’avversario ma innanzitutto noi stessi.

Nel mondo anglosassone una partita (di tennis o altro sport) è chiamata match; to match vuol dire anche abbinare, accoppiare, star bene insieme. La competizione prevede che ciascuno di noi incontri ogni volta se stesso, e che ci stia bene assieme.

E tu, che risposta hai ricevuto quando hai interrogato la tua competizione?

Riconsideriamo le domande poste in PARTENZA. Alla luce della propria lettura della competizione, il traguardo non è necessariamente l’ARRIVO. Anche considerando un obiettivo strettamente sportivo, quarantadue chilometri per me non saranno mai i quarantadue chilometri per te, che mi stai leggendo. Il punto in cui convergere insieme è il proprio TRAGUARDO: ciascuno attribuisce a ogni chilometro percorso, ad ogni allenamento compiuto, a ogni attimo di scoramento, a ogni incitamento e inciampo, un significato intimo; la presenza dell’altro può aiutare a metterlo in evidenza. Prima di cominciare ad allenarsi, allora, occorre fare chiarezza riguardo al proprio traguardo. Aver davanti un uomo come avversario fa più paura di un salto nel vuoto solo se non si conosce il proprio traguardo (e non si può fare altro che confonderlo con l’ARRIVO).

Allora: Il vero avversario è forse la resistenza al cambiamento? Al miglioramento? È forse una forza che non vuole farci incontrare noi stessi?

La gestione della competizione è sovente una domanda sommersa di coaching. Una domanda che raramente arriva a un primo incontro, ma che sale in superficie dopo aver fatto un po’ di chiarezza, talvolta diventando un vero e proprio obiettivo di coaching. Quando arriva, non ha neppure bisogno di fare appello alla parola competizione perché i suoi significati sono emersi in maniera naturale e specifica per quel coachee, dal confronto col mondo che lo circorda e dalla ricerca delle proprie potenzialità.

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1 Le traduzioni nel testo di brani tratti da The Inner Game of Tennis sono a cura dell’autore dell’articolo.

2014-03-04T23:20:01+01:00